Nel 1996 il Comune di Chiavari a Palazzo Rocca ha dedicato una mostra personale a Giuseppe Chiari dal titolo “Conceptual Music” curata da Enrico Pedrini. Insieme alla mostra viene pubblicato un libro-catalogo che ancora oggi è uno strumento importante per comprendere l’opera del Maestro fiorentino. Oltre alle opere in mostra, per lo più si tratta di “Statments”, il volume contiene un’antologia critica che raccoglie interventi dei critici d’arte che si sono accostati alla sua opera, ognuno ne svela un tassello che ci aiuta a comprendere meglio la sua visione dell’arte concettuale che attingeva dalla musica, territorio in cui si sentiva a suo agio grazie agli studi compiuti. Ecco alcuni stralci che abbiamo selezionato tra i numerosi scritti.
“… Chiari non trattava gli oggetti come strumenti a percussione sopra i quali fare dei ritmi, ma come degli organismi da lasciare esprimere nella loro materialità grezza, pre-estetica. Gli altr compositori invece, di massima, li usavano più per eseguirvi precise figurazioni ritmiche che per goderne il suono. Eseguii in seguito i pezzi di Giuseppe Chiari per oggetti ( come “Rompere”, “La mano mangia il foglio”, “Pezzo per custodia di termometro”) pezzi che ebbero su di me funzione anche pedagogica, nel senso che avviarono l’acutizzazione delle facoltà percettive acustiche, attirando l’attenzione su microfenomeni della vita quotidiana che di solito passano inosservati…” scrive Giancarlo Cardini.
” A Giuseppe Chiari, che è in ascolto del flusso d’aria che aleggia intorno a noi e attorno a se stesso. L’aria che è colma di voci, voci che sono la musica creata dal nostro respiro, il cui ritmo è scandito dai battiti del cuore. Chiari ci insegna ad ascoltare come S. Francesco d’Assisi ascoltava gli uccelli, e attraverso di loro riusciva a comprendere il significato dell’Universo. Nessun artista. Nessun pubblico. Nessuna gerarchia. Non dare al pubblico, ma rendere ognuno partecipe di una grande famiglia in cui ci si ascolta a vicenda e, attraverso questo ascolto, si ascolta se stessi….” osserva Amnon Barzel.
” Se “la musica è facile”, come afferma un noto aforisma di Giuseppe Chiari, è anche vero che, per poter dire questo, l’artista deve prima passare attraverso un gesto “difficile”, come ci insegna un’altra sua celebre frase. Questo gesto cruciale consiste nella distruzione, virtuale e simbolica ma in parte anche materiale, del pianoforte, lo strumento musicale per eccellenza, l’emblema di tutto il conformismo sonoro e della schiavitù a norme costrittive e inibitorie. Quanto di più innaturale e arbitrario, a penarci bene, di quella lunga tastiera bianca e nera, del tutto estranea e “muta” all’uomo comune non iniziato al lungo e faticoso apprendistato? …” afferma Francesca Alinovi.
Infine “Le opere, i concerti, le performances, le pagine di musica di Chiari non devono essere letti come aspettativa, intrattenimento per chi ascolta e neppure visualizzazione di confusione sociale – scrive Enrico Pedrini.- Sono operazioni compiute da un individuo che recupera e stravolge le tecniche, i suoni, i linguaggi della tecnologia e ne rileva i limiti, i bordi estremi. Le definizioni e i lavori di Chiari partono dal presupposto che sia la tecnologia ad utilizzarci ed a trasformarci, attraverso quella che McLuhan chiama “narcosi di Narciso” ossia quel potere che hanno le tecnologie di affascinarci, di attirare su di loro la nostra attenzione, di impegnarci nostro malgrado nella specializzazione sensoriale che ci viene proposta a scapito degli altri stimoli offerti dai sensi. Nasce così una nuova funzione dell’arte e quindi nuovi atteggiamenti, nuove operazioni: l’arte come evidenziazione dello sconvolgimento neurosensoriale dell’uomo e trasgressione ( ora necessaria) dei linguaggi.“