La Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, con il patrocinio della Regione Marche, presenta nella propria sede l’importante mostra antologica del pittore americano William Congdon (1912-1998), un’interprete eccezionale del Novecento che con la sua pittura ha dato un volto alla ricerca umana del secolo breve, grazie a un’indagine antropologica sfociata in quadri di grande potenza lirica, tra città e natura antropizzata. La mostra nasce dalla volontà della Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi che ha coinvolto l’associazione culturale Casa Testori. Le opere esposte sono state messe generosamente a disposizione dalla William G. Congdon Foundation – che tutela l’opera del pittore – e appositamente selezionate da Davide Dall’Ombra, direttore di Casa Testori.
Un percorso esaustivo e inaspettato di oltre trenta quadri, spesso di grandi dimensioni, pensato per gli spazi di Palazzo Bisaccioni: dalle New York degli anni Quaranta e le Venezie amate e collezionate da Peggy Guggenheim, fino all’approdo metafisico dei Campi arati degli anni Ottanta e Novanta.
Il visitatore potrà muovere il suo sguardo dall’energia dirompente del linguaggio americano dell’Action painting, di cui Congdon era un interprete, attraverso le sue prime esperienze di viaggio per le città d’elezione. È così che la Roma imponente delle vestigia del Pantheon fa i conti con una rappresentazione esistenziale dell’architettura, rappresentata dalla voragine del Colosseo o dalla precarietà della città di Assisi, franante sulla collina.
A raccontare la “ritrattistica” delle città operata da Congdon, spiccano in mostra, una dopo l’altra, le imponenti tavole di Istanbul, del Taj Mahal, del deserto marchiato dalla presenza umana di Sahara e della voragine di Santorini.
A contrappunto dei tormenti e fasti delle civiltà, Congdon scende nel minuto dell’esistenza, attraversando la metafora dell’animale che, come la natura, deve fare i conti con la violenza dell’uomo. È così che il ciclo dei Tori diviene la metafora della ricerca crudele, espressa dalle nostre tradizioni, come nell’inseguimento dei propri desideri. Ma perfino un toro umiliato, ferito e destinato alla morte può essere – scrive Congdon – redento dall’artista, che ne eterna la grandezza e potenza con la pittura. Dalla pittura come redenzione al simbolo umano di sofferenza e resurrezione per eccellenza, il Crocifisso, il passo è breve. Ma l’approccio dell’artista americano non è mai estetico o teorico e l’approdo al soggetto sacro avviene solo in seguito alla sua tormentata conversione al Cattolicesimo.
Il trasferimento a sud di Milano concentra il suo punto di vista su un soggetto pressoché unico: i campi coltivati. È nell’ultimo ventennio di vita che la ricerca, da spaziale, si fa temporale e protagoniste diventano la potenza della terra e le sue trasformazioni. Non si tratta di visioni idilliache: si svolge l’orizzonte sui campi e se ne segue il processo umano operato in superfice. È un tormento, anche materico, che sembra trovar pace nelle Nebbie e nei monocromi, sfociando nel lirismo musicale della vegetazione che conclude la mostra.
Riemergono così le meditazioni su George Braque e Nicolas De Staël, ma, soprattutto, i dialoghi pittorici con la Scuola di New York legati alla galleria di Betty Parsons, all’origine della presenza di opere di Congdon nei più importanti musei statunitensi e nella Peggy Guggenheim Collection di Venezia.
William Congdon è uno dei più profondi pittori del Novecento, naturalizzato italiano ma sempre americano nell’attitudine artistica. Su di lui hanno scritto alcuni dei più importanti critici internazionali, tra i quali: Clement Greenberg, Jacques Maritain, Giulio Carlo Argan, Giovanni Testori, Peter Selz, Fred Licht, e Massimo Cacciari.