Dal 29 aprile al 12 giugno 2022 torna l’atteso appuntamento con FOTOGRAFIA EUROPEA a Reggio Emilia, Festival di fotografia di caratura internazionale promosso e prodotto da Fondazione Palazzo Magnani insieme al Comune di Reggio Emilia e con il contributo della Regione Emilia-Romagna.
Torna con una fortissima spinta propulsiva, data dal titolo: UN’INVINCIBILE ESTATE, frase celebre di Albert Camus che racchiude potentemente l’immagine di come le nostre forze interiori, pur nel cuore dell’Inverno, tendano inevitabilmente a sprigionarsi infine nel trionfo e nel continuo rinnovarsi della vita. Una metafora quanto mai attuale visto il recente passato e il presente che ci stanno accompagnando. Questa suggestione ha accompagnato la direzione artistica del Festival, composta da Tim Clark e Walter Guadagnini, che ha selezionato i lavori dei protagonisti di quest’anno combinando sguardi internazionali e sensibilità differenti, mai banali, che non mancheranno di cogliere, anche di sorpresa, i visitatori.
Alla base del Festival, come sempre, ci saranno storie e racconti molto spesso intimi, altre volte più aperti e sfacciati ma in entrambi i casi con l’obiettivo di stimolare punti di vista nuovi e una riflessione sulla complessità del mondo e dei fili che intrecciano i suoi abitanti ai quattro angoli del pianeta. Molteplici sguardi sulla contemporaneità attraverso il medium della fotografia, per interrogarsi sul ruolo delle immagini e della cultura visiva in questo particolare momento storico.
Come sempre le sale dei monumentali Chiostri di San Pietro saranno il fulcro del festival, ospitando ben dieci esposizioni. Al primo piano, in ordine di percorso, troviamo Nicola Lo Calzo con il progetto intitolato Binidittu, riflessione sulla condizione delle persone migranti nel Mediterraneo attraverso la figura di San Benedetto il Moro, il primo santo nero della storia moderna considerato un’allegoria dei nostri tempi: luogo d’incontro tra il Mare Nostrum e il mondo, tra la memoria e l’oblio, tra il razzismo banalizzato e l’humanitas condivisa. Nella sala successiva, Hoda Afshar, attraverso gli scatti del complesso progetto Speak The Wind svela gli straordinari paesaggi dell’Iran, la sua gente e i loro rituali, fotografando il vento e gli intrecci di tradizioni e credenze che porta con sé, per formare una registrazione visibile dell’invisibile attraverso l’occhio dell’immaginazione.
La fotografa americana Carmen Winant, invece, nella serie di immagini di Fire on World tesse più narrazioni attraverso centinaia di diapositive ritrovate, di protesta, di nascita e di piccoli mondi, che si allineano ordinatamente e messe insieme formano un quadro più ampio di disordine sociale e dissenso. Il giapponese Seiichi Furuya con la mostra First trip to Bologna 1978 /Last trip to Venice 1985 racconta il primo e l’ultimo viaggio fatti insieme a sua moglie Christine Gössler, attraverso ritratti intimi e fermo immagini, che gli hanno permesso di ricostruire la memoria di quei momenti, fino al suicidio di Christine. Ken Grant, fotografo inglese, propone la mostra Benny Profane, un progetto a lungo termine su un distretto portuale nei dintorni di Liverpool, che diventa nei suoi scatti un’immersione in uno spazio e in coloro che da esso dipendono, un resoconto di parentela e sfida in una terra difficile.
Il giovane Guanyu Xu con le fotografie di Temporarily Censored Home trasforma lo spazio domestico e conservatore della sua infanzia, in scena di rivelazione, protesta e bonifica queer, mediante un mosaico di immagini raccolte da riviste di moda e cinema occidentali, nonché ritratti di sé stesso con altri uomini, per mettere in scena una performance profondamente intima e politica. La fotografa Chloé Jafé con I give you my life racconta la storia, spesso sconosciuta, delle donne della Yakuza – la mafia giapponese tra le più leggendarie al mondo – mogli, figlie, amanti, che orbitano intorno alle attività criminali dei gangster maschi e che a loro hanno dedicato la loro esistenza. Jonas Bendiksen, invece, diffonde il caos nella comunità del fotogiornalismo con The Book of Veles, progetto che accorpa le fake news generate nella piccola e sconosciuta cittadina macedone di Veles per dimostrare – attraverso un misto di reportage classico, modelli di avatar 3D e sistemi di generazione di testo con intelligenza artificiale – che la disinformazione visiva confonde anche i professionisti dei media addestrati. Infine il francese Alexis Cordesse con Talashi, (parola che in lingua araba significa frammentazione, scomparsa) spiega cos’è la guerra civile siriana attraverso le fotografie personali scattate da coloro che vivono in esilio: un atto di rievocazione collettiva tra intimità e Storia.
La mostra storica di questa edizione sarà ospitata nelle sale affrescate del piano terra dei Chiostri di San Pietro e sarà dedicata a Mary Ellen Mark, fotografa documentarista che dal 1964 fino alla sua morte nel 2015, realizza saggi fotografici intensamente vividi e rivoluzionari che esplorano la realtà delle persone, soprattutto donne, in una varietà di situazioni complesse e spesso difficili, dolorose, a volte quasi impossibili.
Mary Ellen Mark: The Lives of Women, a cura di Anne Morin, abbraccia l’umanità di queste donne e la condivide con un pubblico più ampio, fornendo ai suoi soggetti una voce significativa, spesso estremamente potente.
Nella sede di Palazzo da Mosto trovano posto gli scatti della nuova produzione di Fotografia Europea, affidata a Jitka Hanzlovà. Scopo di questo progetto è raccontare come le forze di resilienza degli adolescenti siano oggi particolarmente sollecitate dai risvolti sociali che la situazione sanitaria impone loro da due anni a questa parte.
I progetti dei vincitori della Open Call di questa edizione saranno visibili nel nuovo spazio di Fotografia Europea: la Galleria Santa Maria, nel cuore del centro storico. Simona Ghizzoni racconta nel progetto Isola come sia riuscita a recuperare una relazione con la natura e con le persone, approfittando dell’emergenza Covid per lasciare Roma e tornare a rifugiarsi nell’Appennino Emiliano. La spagnola Gloria Oyarzabal, fotografa e cineasta, fissa il focus della sua indagine sul concetto di Museo in particolare in un’ottica colonialista con il progetto Usus fructus abusus. Infine Maxime Richè, parigino, da tempo si misura con la capacità di adattamento dell’uomo rispetto alle conseguenze degli sconvolgimenti ambientali. In Paradise, il focus è l’incendio che in sole quattro ore ha incenerito l’omonima città californiana e le persone che nonostante ciò, tornano per ricostruirsi una vita, proprio dove la vita è stata così brutalmente cancellata.
Foto: Alexis Cordesse, Syria 2003, Courtesy dell’autore.